La morte nella letteratura classica

Come è stata interpretata e raccontata tra il Settecento e l’Ottocento da Ugo Foscolo

La domanda è sempre la stessa: cosa c’è oltre la morte?

Cosa accade quando lasciamo le spoglie mortali?

Cosa possiamo fare per alleviare il dolore e la perdita di un caro?

Cari amici lettori, oggi iniziamo un nuovo filone di articoli attraverso il quale cercheremo di raccontarvi come la morte è vista della letteratura italiana e dai grandi scrittori di ogni epoca.

Il tema della morte, del passaggio dalla vita terrena alla vita eterna, non è una novità né tantomeno uno scandalo anzi, è al centro della poetica di tanti.

Pensare alla morte fa paura, ci fa paura perché rappresenta la perdita di qualcosa di molto prezioso: la vita. La perdita della vicinanza di quelle persone che hanno parte di noi, nel nostro quotidiano; eppure la morte è solo una lontananza fisica, materiale. I nostri cari sono sempre nei nostri cuori e nei nostri pensieri, a volta basta un fiore portato sulla tomba per sentirli vicini.

Un discorso che vale per te, noi, pensando a cosa significa morire; ma in ambito letterario cos’è la morte?

Iniziamo da uno più notevoli esponenti letterari italiani del periodo a cavallo fra Settecento e Ottocento: Ugo Foscolo.

Per lui e per gli autori romantici del suo periodo, la morte è il momento della verità per l’uomo che si misura con sé stesso.

La morte è dunque confortata del compianto delle persone care e se Foscolo non crede nella presenza dell’aldilà cristiano, crede nella corrispondenza d’amorosi sensi (Dei Sepolcri) che consente ai vivi di ripercorrere le vicende esemplari degli uomini grandi del passato imitandoli.

Con il Dei sepolcri dunque la morte cessa di essere vista come evento distruttivo ed essa consente di proiettare nel futuro la fama di chi ha vissuto degnamente.

È l’opera dove il tema della morte è trattata in modo più ampio e chiaro visto che la sua nascita derivi a seguito di una discussione, avuta nel salotto letterario di Isabella Teotochi Albrizzi con il letterato Ippolito Pindemonte, sulla regolamentazione delle pratiche sepolcrali. L’editto stabiliva che le tombe dovevano essere poste al di fuori delle mura cittadine, in luoghi soleggiati e arieggiati, e che fossero tutte uguali. Si volevano così evitare discriminazioni tra i morti. Per i defunti illustri, invece, era una commissione di magistrati a decidere se far incidere sulla tomba un epitaffio. Questo editto aveva quindi due motivazioni alla base: una igienico-sanitaria e l’altra ideologico-politica.

L’editto dunque offre al poeta l’occasione per svolgere una densa meditazione filosofica sulla morte e sul significato dell’agire umano.

Lo scrittore arriva alla conclusione che “In generale il fine ultimo della morte è che va accettata come naturale destino dell’uomo”.

Ma come si fa?

Come si può?

Questa accettazione non vuol dire vivere in maniera passiva, perché è comunque possibile indirizzare il percorso della storia verso una precisa evoluzione. In questo senso, la memoria è un prezioso elemento di riscatto contro l’oblio e il nulla a cui ci porta la morte.

Morte che Foscolo narra e scrive in diversi sui capolavori; ne riportiamo due:

 

In morte del fratello Giovanni

Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo

di gente in gente, me vedrai seduto

su la tua pietra, o fratel mio, gemendo

il fior de’ tuoi gentil anni caduto.

 

La Madre or sol suo dì tardo traendo

parla di me col tuo cenere muto,

ma io deluse a voi le palme tendo

e sol da lunge i miei tetti saluto.

 

Sento gli avversi numi, e le secrete

cure che al viver tuo furon tempesta,

e prego anch’io nel tuo porto quiete.

 

Questo di tanta speme oggi mi resta!

Straniere genti, almen le ossa rendete

allora al petto della madre mesta.

Alla sera

Forse perché della fatal quiete

tu sei l’immago, a me si cara vieni,

o Sera! E quando ti corteggian liete

le nubi estive e i zeffiri sereni,

 

e quando dal nevoso aere inquiete

tenebre e lunghe all’universo meni,

sempre scendi invocata, e le secrete

vie del mio cor soavemente tieni.

 

Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme

che vanno al nulla eterno; e intanto fugge

questo reo tempo, e van con lui le torme

 

delle cure onde meco egli si strugge;

e mentre guardo la tua pace, dorme

quello spirto guerrier ch’entro mi rugge.

 

Per approfondire il tema nella letteratura ti invitiamo a leggere il nostro blog e a seguire i prossimi articoli!

Forse mai avremmo pensato di soffermarci sul discorso letterario, ma di fatto nulla è più straordinariamente avvincente del tema, laddove in queste righe ciascuno trae il suo conforto!

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